L’introduzione a “Sogni ad occhi aperti” di Giuseppe Conte

Risultati immagini per sogni ad occhi aperti miredi moroneIn Sogni ad occhi aperti, il sorprendente libro di poesie di Rodolfo Valentino, c’è un testo che non è una vera e propria poesia, ma piuttosto una serie di aforismi senza ordine apparente; si intitola infatti “Riflessioni a casaccio”, e vi leggiamo: “Nel giardino andiamo noi tutti, ma i più ricercano il verme nella terra e mai vedranno la promessa del fiore”.
E siamo già in pieno territorio mitico-simbolico: il giardino in cui andiamo è quello da cui siamo stati cacciati una volta, è il giardino di delizie e di rose intravisto sempre dai poeti come meta-miraggio da raggiungere per ottenere la pienezza della vita; qui il giardino sembra essere la vita stessa, la crosta di pensiero vivente che avvolge il pianeta. Tutti ci entriamo, è vero: ma c’è chi non riesce ad andare oltre la ricerca di ciò che esiste e muore a un livello di coscienza orizzontale, strisciante sulla superficie o addirittura sottoterra, nel buio. Sono i più, i non illuminati, quelli che di fronte al bozzolo non sospettano la farfalla, che di fronte al verme vedono la rosa già corrotta e divorata, che di fronte al ramo secco non sospettano mai la promessa della rifioritura.
L’atteggiamento mitico è l’opposto: è entrare nel giardino con gli occhi bene aperti e disposti a cogliere tutte le metamorfosi; a sottolineare tutte le presenze numinose, tutti i movimenti misteriosi, e la ciclicità che del buio, del verme, dell’aridità sa fare luce, farfalla, fiore, cioè Anima.

Alla Nazimova, Natasha Rambova, June Mathis, le donne che tanto potere e influenza ebbero su Valentino, lo introdussero anche a una cultura esoterica, il cui fondamento è sempre un sapere mitico-simbolico, in qualunque modo si manifesti.
Ho qui davanti a me due foto di Valentino: non sono foto di scena, non hanno niente a che fare con i suoi film; dunque posseggono una forza rivelatrice ancora maggiore. La prima foto lo mostra in veste di fauno: nudo dalla vita in su, e le gambe coperte da qualcosa che ricorda la pelle di capro; tra le mani, ha un flauto; la posa ha un che di ruotante, che conferisce all’immagine la sua energia di danza e la sua ambiguità; il ginocchio della gamba destra è rivolto verso l’alto e dalla parte opposta a quella del volto e dello sguardo, concentrato verso un punto in basso e segreto; anche lo strumento musicale è tenuto obliquo rispetto alla direzione del volto. La seconda foto è quella di Valentino in veste da pellerossa, ritratto di profilo, qui, senza p9iù ambiguità e torsioni, addirittura con una certa fissità ieratica: il torace ancora nudo ma striato da due trecce e da una collana bellissima; la fronte è avvolta da una benda, che regge una piuma scura; una mano viene portata aperta davanti alla fronte, come per riparare dal sole gli occhi di chi sta guardando lontano.
Questi due travestimenti ci dicono in realtà una dimensione profonda dell’anima: nel primo Valentino è Pan, l’antico dio silvano la cui scomparsa è coeva all’affermazione del Cristianesimo; nel secondo Valentino è Penna Nera, il pellerossa che lui sceglie come spirito guida. E c’è coerenza nell’abbinamento di Pan e del Pellerossa, c’è consequenzialità. Per scoprirlo basta leggere il saggio Pan in America che D.H. Lawrence scrisse nel suo ranch sulle Montagne Rocciose, più o meno negli stessi anni dell’avventura di Valentino. Lawrence comincia affermando che “qui in America, che è il paese più vecchio di tutti, il vecchio dio Pan è ancora vivo”; è ancora vivo lo spirito per cui l’uomo sente in sé le qualità di ogni altro essere vivente, la “dura, silente immobilità della roccia, la resistenza fluente di un albero, la fugacità quieta del puma, la ostinata terrestre sapienza dell’orso, la sottile fremente vivacità del cerbiatto, la visione dell’aquila che spazia nei cieli”. E dove e perché Pan è ancora vivo, lo scrittore inglese ce lo svela con chiarezza: tra gli Indiani, nel loro culto del Grande Mistero, nella loro visione delle cose per cui tutto è anima.
Valentino, arrivato in America da una terra che è dirimpetto alla Grecia, trasforma il suo Pan in Penna Nera, scegliendolo come spirito guida, per rientrare, forse, in quella dimensione dell’essere in cui ciascuno sente in sé l’intera energia dell’Universo.

Valentino ebbe dunque un approccio mitico alla vita, e divenne lui stesso un mito. Se a distanza di tanti decenni dalla morte si continua a parlare di lui, e se al di là dei suoi stessi film la sua immagine e il suo nome hanno preso connotati esemplari, e il suo nome stesso una specie di venatura antonomastica, come Adone o Casanova, vuol dire che Valentino non è stato soltanto inventato a Hollywood con la celluloide e la carta di giornale; vuol dire cioè che non è stato soltanto uno di quei tanti “miti d’oggi” mistificanti e falsi di cui ci parla Roland Barthes, ma che ha visto confluire in sé gli elementi oscuri con cui i miti veri, quelli che hanno profondità e anima, da sempre si costruiscono.
A leggere la vicenda di Valentino, gli elementi di mitizzazione sono il sesso, la morte precoce, l’ambiguità.
Valentino seduttore porta in America un modello europeo, una sontuosa sintesi di mediterraneità (il padre e la nascita pugliese) e di aura francese (la madre): un modello che aveva qualcosa di già superato in Europa, dove negli stessi anni impera il Futurismo e il nuovo modello di seduttore, dinamico e anti-sentimentale e imperioso è fornito dal Martinetti di Come si seducono le donne. Semmai c’è in Valentino-Sceicco qualcosa del travestimento sensuoso e languido di certo figure dell’estetismo dannunziano. L’ambiguità della sua bellezza, metamorfica, androgina, fuori tempo; l’ambiguità, il senso di mistero e di sospetto che regna intorno alla sua morte precoce, come per Marilyn Monroe, tanti anni dopo: sono questi i fattori che hanno permesso a Valentino di varcare il tempo, e di essere non soltanto nella storia del cinema, ma nella storia dell’immaginario collettivo novecentesco.

Nelle pagine di questo libro, il lettore troverà una originalissima interpretazione della figura di Valentino: i due autori, Chicca Morone e Antonio Miredi, hanno avuto il coraggio, trattando di un attore di cinema, di un adepto della Decima Musa, di convocare tutte le altre, di inscrivere l’oggetto della loro ricerca (e della loro passione) sotto il patrocinio delle dee che presiedevano, in tempi più felici dei nostri, a tutte le arti. Le Muse, ebbe a dire Borges, sono “ciò che gli Ebrei e Milton chiamarono lo Spirito e la nostra triste mitologia chiama Subcosciente”. La veramente triste mitologia del secolo che muore ha troppo spesso riportato tutto al subcosciente, o inconscio. Oggi noi possiamo rivendicare piuttosto alle Muse uno spazio autonomo di ricchezza, di sovrabbondanza spirituale, o quello spazio “immaginale” di cui ci parla Henry Corbin e che tanto è importante per capire la realtà di ogni nostra invenzione creativa. Le Muse ridiventano forze viventi, correnti e nodi di energia, dalla cui luce veniamo chiamati. E dalla cui luce tanti movimenti dell’anima si spiegano.

Nel capitolo cui presiede Calliope, è oggetto d’analisi la forza epico-erotica del Valentino Sceicco. Il predone del deserto che sottomette la donna bianca è a sua volta sottomesso alle leggi d’amore: questo è il segreto per cui l’eroe che potrebbe apparire un violentatore ottiene invece che nella donna si accenda “un sentimento di totale appartenenza” grazie proprio alla sua “sudditanza alle regole d’amore”. La sensualità di Valentino, come forse in chiunque, scaturisce da profondità misteriose e istintuali: e soltanto la morale corrente, ipocrita e oppressiva, nega che la sensualità sia in simbiosi con lo spirito.
È Tersicore, la musa della danza, che ci permette di vedere Valentino e la Rambova come una “sintesi androginica umana, proiezione di quella divinità: Pan e Selene”. E Polinnia ci mostra l’attore di fronte all’esperienza della pantomima: se il senso della pantomima è “imitare tutto”, allora Pan, il tutto, viene richiamato, e con esso il “panico”, nella sua doppia accezione di paura e di vitalità. Talia ci racconta Valentino interprete della Commedia umana e di Camille, alle prese con le vicende raccontate nel romanzo Eugénie Grandet di Balzac e sulle scene di Dumas figlio. Euterpe che presiede alla musica, offre il destro per una attenta sottolineatura della “sottile filigrana musicale” presente sia nella vita sia negli scritti di Valentino. Sotto la voce di Erato , la musa della poesia amorosa, possiamo leggere una analisi delle poesie contenute in Sogni ad occhi aperti, il libro che appartiene al momento più duro della vita dell’attore, nei cui testi alla grande, a tratti elementare semplicità linguistica viene rintracciato, grazie a strumenti attenti al simbolico e all’esoterico, un pathos genuino e magico.
Con Clio, entriamo nella storia, e leggiamo una sintesi illuminante delle vicende biografiche dell’attore, con Melpomene scopriamo la sua tragedia finale, da Urania veniamo condotti a decifrare le influenze astrali sul suo destino.
Il lettore è guidato così in un percorso dal tracciato davvero originale: le Muse ci presentano, ciascuna a suo modo, spezzoni di un film critico pieno di intuizione e di passione. Non è la celebrazione di un mito, quella cui assistiamo: è qualcosa di più, e di meglio. Vediamo all’opera strumenti mitici di indagine, che ci svelano come anche un mito del nostro secolo possa essere ricondotto, del mito, alle scaturigini primordiali ed eterne.

Giuseppe Conte

Tempiquieti e landays- Vittoria Ravagli presenta il percorso

I landays sono una forma di poesia breve, popolare e antica che le donne pasthun utilizzano in segreto per denunciare le violenze e i soprusi a cui sono sottoposte.

Landays – o landai – è un distico in cui il primo verso è di nove sillabe, il secondo di tredici. Ma non vi è rigidità nel comporre. La poesia semplice, comprensibile a tutti e che tutti possono scrivere, è certo uno dei mezzi più potenti e liberi per dare messaggi immediati, forti, che si fissino nelle menti in modo indelebile. Con la poesia si sono fatte conoscere nel mondo le lotte dei popoli oppressi, si sono tramandate per secoli le storie delle genti dimenticate.
Un amico poeta, Marco Ribani, ha pensato alla possibilità che i landai vengano usati “come arma internazionale di denuncia delle donne contro la società maschilista e le violenze famigliari”: io credo che la sua intuizione sia preziosa.
La violenza sulle donne è un fatto di inciviltà insopportabile. E’ il frutto della volontà cieca dell’uomo che vuole sopprimere la voce delle donne e la loro partecipazione alla vita attiva e alle decisioni comuni. Il patriarcato sta mostrando il peggio di sé sia a livello privato che pubblico.
Ora se questo mezzo così semplice può essere la trama che unisce le voci delle donne sulla terra e dà loro potenza formando un’unica tela, partiamo da là, dalle donne afgane – così terribilmente provate – e facciamo girare questo messaggio senza stancarci, coinvolgendo amici, associazioni, istituzioni, giornali, blog, rete. E gli uomini, perché sono loro prima di tutto che debbono cambiare. Partiamo da quelli che io chiamo “i giusti” perché dicano, si espongano pubblicamente, si muovano attivamente, si colleghino tra di loro, con noi, le donne.

Di seguito un bellissimo articolo dell’amica Maria G.Di Rienzo, dal suo blog “Lunanuvola”
Nelle sue parole, nel racconto che ci fa, c’è tutto quello che dobbiamo sapere.

Morire di poesia


.Morire di poesia
Nadia Anjuman, artista afgana, morì nel 2005 del brutale pestaggio di suo marito. Aveva 25 anni. Le sue “colpe” erano l’aver pubblicato le sue poesie ed essere diventata famosa in ragione di ciò. In Afghanistan si può morire di errori umanitari, di armi intelligentissime maneggiate purtroppo da perfetti idioti, di matrimonio, di parto, di religione, di etnia, di papaveri da oppio, persino di scuola. La scelta è così vasta, soprattutto per le donne, che sono qui a domandarmi se era proprio necessario aggiungerci dell’altro. Ma tant’è: le mie simili, in Afghanistan, possono morire anche di poesia.


La maggiore associazione di scrittrici e letterate, nel paese, si chiama “Mirman Baheer” ed è la versione contemporanea dell’associazione “Ago d’Oro” dell’epoca talebana in cui le donne di Herat, fingendo di cucire, si riunivano per discutere di letteratura. A Kabul, l’associazione odierna non ha bisogno di nascondersi: ne fanno parte insegnanti universitarie, parlamentari, giornaliste, intellettuali che hanno una vita pubblica e le facce scoperte. Ma per le restanti 300 socie delle province “Mirman Baheer” funziona come una setta segreta. Al telefono dell’associazione c’è sempre una donna, Ogai Amail, che aspetta in orari concordati le loro chiamate: le socie le recitano le poesie che non è loro permesso creare e la volontaria, anch’ella poeta, le trascrive verso dopo verso.
Zarmina (che firmava le sue poesie con lo pseudonimo “Rahila”) viveva a Gereshk, a circa 600 chilometri da Kabul. Si mise in contatto con il gruppo dopo aver ascoltato alcune sue socie recitare poesie alla radio. A Zarmina, adolescente, non era permesso uscire di casa. La radio era il suo solo tramite per il mondo esterno e le telefonate doveva farle di nascosto. “Era giovanissima, ma il suo lavoro era già impressionante per ricercatezza, originalità e coraggio.”, ricorda Ogai Amail, “E la sua urgenza di creare era assoluta. Ad esempio, non sopportava i ritardi o le dilazioni nei nostri colloqui telefonici e a volte mi rimproverava con un landai di questo tipo: Io sto gridando ma tu non rispondi. / Un giorno mi cercherai ed io me ne sarò andata da questo mondo.”
Landai significa “piccolo serpente velenoso” in lingua Pashto: si tratta di poesie popolari, composte da due versi, che perdono la loro origine non appena vengono recitate. Un landai non appartiene neppure a chi lo crea, le persone dicono di “ripeterlo” o di “condividerlo” anche quando è nato nella loro mente. Gli uomini possono inventare e recitare queste poesie che però, quasi esclusivamente, hanno per voce narrante una donna. “I landai appartengono alle donne.”, dice Safia Siqqidi, poeta ed ex parlamentare afgana, “Nel nostro paese, la poesia è il movimento delle donne dall’interno.” La poesia pashtun ha una lunga storia come forma di ribellione delle donne afgane. E i landai sono di solito micidiali proprio come il morso di un serpente velenoso: diretti, sboccati, concreti, arrabbiati, sensuali, buffi, tragici, vanno diritti al cuore della questione che affrontano. I matrimoni imposti, odiati e derisi tramite dettagli grafici, sono un bersaglio frequente di questo tipo di poesia.
Zarmina usava diversi metri poetici per descrivere “la buia gabbia”, cioè le costrizioni che soffocavano la sua vita, e chiedeva ragione a dio e all’umanità di tanta sofferenza: Perché non mi trovo in un mondo in cui la gente possa sentire quel che io sento ed udire la mia voce? Nell’Islam, Dio amò il Profeta Maometto. Io sto in una società dove l’amore è un crimine. Se siamo musulmani, perché siamo nemici dell’amore?
Due anni orsono, Zarmina stava leggendo al telefono le sue poesie d’amore quando la cognata la sorprese. “Quanti amanti hai?”, le chiese sprezzante. L’intera famiglia sposò questa tesi. Dall’altra parte del filo doveva esserci sicuramente un giovanotto. I fratelli si produssero in un regolare pestaggio della ragazza e fecero a pezzi tutti i suoi quaderni di poesie. Due settimane più tardi, Zarmina si diede fuoco e morì all’ospedale di Kandahar dopo sette lunghi giorni d’agonia. Non aveva che 17 anni.
Zarmina era stata fidanzata dal padre ad un cugino coetaneo quando era una bambina, ma il fato era stato generoso e i due si erano innamorati sul serio. Quando però saltò fuori che la famiglia del ragazzo non poteva pagare la dote richiesta dal padre di Zarmina, quest’ultimo sciolse il fidanzamento. Il ragazzo, saputo della morte dell’ex fidanzata, ha tentato di uccidersi lui stesso pugnalandosi al petto più volte. L’anno scorso i familiari gli hanno arrangiato un matrimonio e lo hanno spedito ben distante.
Durante le due settimane trascorse fra il pestaggio e il suicidio, Zarmina non disse ad Amail quanto era disperata. Le recitò però un altro landai: O giorno del giudizio, dirò a voce alta / Vengo dal mondo con il cuore pieno di speranza. “Stupida, le risposi, non dire così. Sei troppo giovane per morire.”, ricorda ancora Ogai Amail, “Zarmina è solo la più recente delle poete-martiri afgane. Ce ne sono centinaia come lei. Tutte le giovani artiste che ci chiamano al telefono sono in una posizione molto pericolosa. Sono tenute dietro alte mura, sotto lo stretto controllo degli uomini. Io sono la nuova Rahila, mi ha detto di recente una di loro, Registra la mia voce, così quando verrò uccisa ti resterà qualcosa di me.” Amail l’ha ovviamente rimproverata, ma pensa che sarebbe bello avere un registratore, averlo avuto quando Zarmina-Rahila recitava le sue poesie ed ora poterla riascoltare. La nuova Rahila ha scelto come pseudonimo Meena Muska (Sorriso d’Amore, in Pashto). Non sa quanti anni ha, perché è una femmina e nessuno si è preso la briga di registrare la sua data di nascita. Se le chiedete la sua età (dovrebbe avere circa 17 anni) lei vi risponderà poeticamente: Sono un tulipano nel deserto. Muoio prima di sbocciare, e le onde della brezza del deserto soffiano via i miei petali. A differenza della musa che si è scelta, Meena può contare su qualche sostegno in famiglia: sua madre e la sua meira, l’altra moglie di suo padre, amano le sue poesie e la proteggono. Se gli uomini della famiglia sapessero che scrive poesie la loro reazione sarebbe identica a quella dei parenti di Zarmina. “Una brava ragazza non ha voglia di studiare, non scrive, non legge.”, spiega Meena. Dice anche che deve ancora lavorare molto per raggiungere nei suoi versi uno standard qualitativo che la soddisfi. Io la trovo già interessante. Se la lasciano vivere, l’arguzia che mostra potrebbe regalarci diverse delizie. Uno dei suoi landai recita: O separazione! Spero che tu muoia giovane. / Perché sei tu quella che dà fuoco alle case degli amanti.
Il membro più giovane dell’associazione “Mirman Baheer” è una ragazza di 15 anni, Lima. Ha iniziato a creare poesie quando ne aveva 11 ed era analfabeta. Indirizzava versi a Dio e li ripeteva a suo padre. Costui, un ingegnere, ne restò meravigliato e compiaciuto (“Perché non sa granché di poesia”, scherza Lima) e decise di portare tutte le figlie all’associazione delle letterate affinché imparassero a leggere e scrivere. L’ultimo lavoro di Lima è un rubaiyat, un tipo di quartina araba, e dice: Non mi permetti di andare a scuola. / Allora non diventerò una medica. / Ricorda questo: / un giorno anche tu ti ammalerai.
Maria G. Di Rienzo

 

Immagini: fernirosso.wordpress.com, Osservatorio Afghanistan

Luna d’amore di Chicca Morone

Sin dalle prime righe è facile entrare nel fascino indiscutibile di questi racconti d’amore. Legati da un sottile filo rosso, sembrano comporre un disegno misterioso e alto, come tante tessere di un mosaico enigmatico e intriso di sapienza: il tema del Guerriero, quello dell’Amore, quello della Madre che si metamorfa Sacerdotessa e Maga, Stella Polare e Terra.

Ciò che più colpisce è l’insistenza con cui Guerriero ed Eros si incontrano e si scontrano, archetipi di una eterna battaglia magmatica cosmica e interiore: il teatro della battaglia è dentro ognuno di noi in attesa di poter dare vita a immagini reali nella loro proiezione esteriore.

Nascosto da un tono ora evocativo ora perentorio, ora affabulante, un sapere antico e rassicurante testimonia la conoscenza mitico-magica di un’autrice impegnata da sempre nella ricerca spirituale.

Visualizza il libro: Luna d’amore

Gli Dei amano in silenzio

Viviamo in un’epoca molto contraddittoria: usiamo mezzi di comunicazione eccezionali, possiamo individuare pianeti nello spazio, crediamo di essere all’avanguardia nella ricerca scientifica e poi, a tratti, ci rendiamo conto che Egizi, Caldei, Greci e una marea di nostri predecessori forse avevano conoscenze ben oltre le nostre ed evitiamo di approfondire questi argomenti presi dalla paura di uno schiaffo al nostro delirio di onnipotenza!
Così accade anche per quanto riguarda la nostra ricerca interiore che, quando inizia a spingerci verso il nostro cammino, anche solamente con le prime sedute astrologiche o davanti ai tarocchi, ci porta in spazi diversi nei quali siamo costretti a prendere contatto con l’invisibile e a confrontarci con il divino quasi senza sapere di percorrere una strada già prestabilita.
Il rapporto tra noi e il nostro Io è infatti squisitamente occulto e così intimo da escludere chiunque non faccia parte di tale dinamica misterica: è un rapporto che ha connotazioni uniche, come unica è la nostra mappatura cromosomica, unica la nostra iride, unica la composizione del nostro sangue, unica la nostra scrittura.
Dalla storia abbiamo appreso le prime rudimentali informazioni sul nostro passato, sulle vittorie dell’umanità e sulle sue disfatte, a volte senza elaborare il dato che la storia non può essere un racconto obiettivo, e soprattutto che è stata scritta dagli uomini che vi hanno inciso il loro nome principalmente con ferro e fuoco.
Uomini, perché alle donne è stata demandata un’altra funzione.
È quindi la storia tramandata da chi ha reso la sua realtà soggettiva come verità per conformare l’evidenza dei fatti al proprio pensiero, per porre nuove regole e dare luce a nuovi archetipi.
Così sono stati fatti “sparire” dei e divinità che avevano la loro dignità prima della venuta del Cristo, ma è difficile credere che questi siano andati in esilio in silenzio e siano davvero scomparsi: le loro essenze sono rimaste sospese nell’aria e hanno continuato a esistere, pur non manifestandosi a tutti.
Oggi, con questa accelerazione del tempo che emerge ovunque, sono molte le domande che dovremmo porci: la prima è sicuramente il significato del nostro rapporto con il divino pagano che va cercato nell’essenza simbolica del mito e del suo perdurare oltre alla fine del mondo classico.
Non è credibile che si tratti di una “moda”: ghettizzare così un movimento dalle radici ben solide – tanto da riunire persone così diverse tra loro in un comune sentire – in stereotipi di matrice New Age è per lo meno sbrigativo.
Primi contatti
Spesso, intervistando persone di particolare sensibilità, giunte a traguardi ammirevoli in campo artistico, mi sono resa conto di quanto l’incipit del loro incamminarsi sul sentiero della ricerca risalisse a un periodo particolarmente contrastato della loro vita: il pittore Botero, rimasto orfano da piccolo, e costretto a lottare per un po’ di pane ricordava – più che la vendita del suo primo disegno – l’aver perduto per strada le poche monete da portare alla madre con una emozione ancora viva negli occhi. Alda Merini parlava della sua esperienza in ospedale psichiatrico e del dolore provato al pensiero delle sue tre figlie senza madre, separate tra di loro; Carol Rama raccontava del padre suicida e della madre in casa di cura con la leggerezza di chi ha vinto il demone della paura… ma tutti hanno confessato la loro impossibilità ad agire in modo diverso, dichiarando di aver “sentito dentro” la compulsione a tradurre angoscia e disperazione nella loro forma artistica.
Davanti a queste esperienze il pensiero va verso una sola possibile ragione esplicativa autentica: quella di un nesso preconscio e pre-logico con entità cosmiche quali gli antichi dèi, Enti cosmici che scelgono persone caratterizzate da una particolare sensibilità e ne fanno i loro strumenti per comunicare con un mondo nel quale non ci sono più miti e riti a loro dedicati.
Viene da riconoscere in certi scritti la mano di Artemide piuttosto che di Venere, nella danza di una gitana la forza di Tersicore, nella tragedia di un autore russo la voce di Melpomene, negli acuti di un soprano il soffio di Euterpe e così via fino a decodificare interamente ciò che ci circonda per essere in grado di riconnetterci con quello spazio in cui si possono percepire frequenze diverse, diverse Idee, matrici uniche per l’arte.
Chi professionalmente scrive, canta, danza, dipinge o suona con certe caratteristiche sa di essere l’interprete di una forza donata da una trascendenza, così come l’antico profetare della Pizia, la cui coscienza si ritraeva, per consegnare la propria fisicità come pura carne mediatrice del detto divino. Nel fare artistico agisce più forte, una forza che viene da lontano e che non può essere posseduta: sa che in certi momenti si può “diventare” il canto, la danza ecc. ma, quando svanisce il momento di connessione profonda, quella forza evapora e rimane un senso di distacco, di nostalgia per quanto è impossibile fermare: gli Dei sono liberi, non possono essere posseduti.
Ciò che resta sono gli scritti, i quadri, le riprese e le registrazioni, ma oramai fuori e non più tangibili nell’interiorità, se non attraverso il ricordo privato della coscienza.
L’artista sa che si tratta di realizzare un’opera che possa “parlare” anche agli altri, comunicare ciò che nello stato di ebbrezza si è stati in grado di vivere e canalizzare. Si accetta quindi la propria funzione di medium sapendo che l’atto della creazione è un attimo d’amore con la divinità, un attimo in cui si specchia l’eterno.
Impossibilità alla così detta “normalità”
Chiunque frequenti questi luoghi dell’anima sa perfettamente che è davvero raro trovare comprensione tra quelli la cui ricerca è indirizzata principalmente verso il benessere materiale: chi cerca nella materia dà la priorità alle tematiche riferite con al centro il corpo; mentre per chi vuole conoscere ciò che c’è oltre e ascoltare le richieste dell’anima il mondo fenomenico non basta, ed è costretto a dirigersi verso il mondo delle cause.
Avventurarsi nella ricerca significa disidentificarsi da ciò che ci circonda e tendere ad un unico obiettivo: la riunione con il proprio Io superiore, quello che sa di esistere anche senza il nostro corpo.
Potremo dunque rimanere ottime casalinghe o insegnanti di ginnastica o altro, ma nello stesso tempo dovremmo riuscire a sapere di non essere solo quella o quell’altra persona in un questo o quell’altro ruolo quotidiano e tendere verso la luce non solo come gioco della mente, ma come percezione reale della nostra essenza.
Nella tensione a tale riconoscimento cambia il rapporto con i prodotti della cultura corrente e i tipi di comunicazione che organizzano, ergo il rapporto con gli altri cambia: gli argomenti di interesse esulano dall’ultimo film comico e le letture non sono il tipico prodotto dell’editoria imperante. Il tempo che noi dedichiamo al contatto con gli altri diventa sempre più limitato e si incomincia ad essere “pieni di sé” tanto per chi non gradisce il nostro isolamento e ne giudica il comportamento “asociale” (trovando intollerabile l’autobastarsi) quanto per noi stessi a cui bastiamo nella nostra consistenza.

Perché la mitologia nella mia arte
(immagine)
Come gran parte degli appartenenti al segno zodiacale dei Pesci preferisco nuotare nel fondo degli abissi piuttosto che arare un campo o scalare montagne innevate: è la mia natura, governata da Nettuno, condizionata dal periodo in cui le forze della Natura premono, già in attesa della primavera.
Non è un gran merito: sarebbe stato difficile non ascoltare le voci provenienti dall’inconscio e negare misticismo e magia; che han segnato tutta la mia vita.
La grande difficoltà che da sempre mi accompagna è l’apparente razionalità (indotta per questioni di sopravvivenza in un habitat poco consono alle mie fantasie) che mi ha spesso fatto apparire come decisa e determinata, radicata nella vita pratica. Le persone che mi conoscono e leggono per la prima volta i miei scritti restano interdette e stentano a riconoscermi nella mia vera natura: le due immagini sono così discordanti l’una dall’altra da credere che non possano coesistere e in effetti ancor oggi mi capita di dovermi impegnare non poco per metterle d’accodo.
Rileggendo il Simposio di Platone mi sono resa conto però di quanto la dualità sia alla base di ogni essere vivente e di quanto il raggiungimento dell’equilibrio derivi dalla abilità capacità di affondare le proprie radici in quella nostra parte più autentica piuttosto che nell’immagine mandata avanti per relazionarci agli altri: saper congiungere le due metà, quelle in cui siamo divisi, è ciò che prelude al nostro riconoscimento profondo.
“Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all’antica perfezione. […].
Le persone quando incontrano l’altra metà di se stesse da cui sono state separate sono prese da una straordinaria emozione, colpite nel sentimento di affinità con l’altra persona, se ne innamorano. […]. C’è qualcos’altro: evidentemente la loro anima cerca nell’altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza.
Grande la verità nell’insegnamento mitico del filosofo, eppure fuorviante e spesso tragica è la ricerca secondo la lettera; ovvero la ricerca dell’altro fuori di sé, perché anche quando ci illudiamo di aver trovato “l’altra metà”, vulgo l’anima gemella, e siamo convinti che nulla potrà mai separarci, cadiamo nell’errore di credere che esista davvero quell’essere in grado di colmare il nostro vuoto interiore: in realtà ciascuno di noi è solo la metà, ma di se stesso, non di qualcun altro.
Noi esistiamo a metà semplicemente perché non abbiamo la consapevolezza della nostra divinità, dell’unità che è armoniosa perfezione, ben lontana dalla cosiddetta perfezione terrena! Ecco perché percepiamo l’incompletezza, che in realtà che è solo incompiutezza.
A volte siamo così lontani da quel filamento che ci unisce al divino da credere di poterne fare a meno e di decidere con il nostro libero arbitrio della nostra vita secondo quello che la nostra mente ci suggerisce.
Perdere o sottovalutare il nucleo vero della nostra esistenza è un errore che provoca danni inestimabili: è come tagliare il cordone ombelicale a un bambino nel ventre di sua madre quando ancora la gestazione non è giunta al termine! E che cosa ci lega alla Natura se non quel “filo” invisibile?
L’anima infatti non permette a nessuno di ignorarla, a meno che non sia costretta a ritirarsi quando lasciamo spazio alle forze distruttive, quelle che ci circondano nel tentativo di sviarci, di non farci raggiungere il “sogno” da realizzare, quel sogno che è il motivo della nostra venuta sulla terra.
Le forze della controiniziazione esistono e sono potenti quanto quelle che ci sospingono verso la luce.
L’immagine dell’auriga che tiene per le redini il cavallo bianco e quello nero nel Fedro di Platone può darci un’ulteriore visione del nostro essere: solo nell’equilibrio delle forze contrastanti la nostra anima può procedere verso la luce, può giungere a identificarsi con il Sole verso il quale si dirige!
Trattenuti in falsi scopi, zavorrati da obiettivi a noi profondamente estranei, può capitare che inseguiamo un successo effimero sospinti da “energie” con connotazioni molto chiare nella mitologia classica: Marte che ci incita all’ira, Mercurio che ci rende ladri, Venere che provoca una libido senza confini, Giove che ci fa rimpinzare di dolci, Saturno che non ci fa scoprire le gioie della generosità e l’orgoglio del Sole legato all’accidia della Luna che ci inibisce definitivamente nella nostra crescita spirituale. Ed è in “Virtù dei vizi” che ho voluto mettere in luce proprio questi duplici aspetti di una stessa energia: diverso è l’approccio alla stessa tematica se la persona vive in armonia con se stessa o se viene dominata dalla divinità che impera su quel tipo di tematica. A un “voi” impregnato di vizi ho contrapposto un semplice “noi” depositario degli stessi vizi esorcizzati in quanto vissuti in positivo, nella consapevolezza della loro esistenza:
Il vostro orgoglio vi rende sicuri del vostro potere
Il nostro orgoglio ci rende liberi dall’apparire
La vostra accidia vi rende certi dei vostri credo
La nostra accidia ci aiuta a non competere
La vostra invidia vi rende ladri di idee
La nostra invidia ci rende cercatori di verità
La vostra lussuria vi rende preda degli istinti
La nostra lussuria anima solo le nostre notti
La vostra ira grida le vostre ragioni
La nostra ira alimenta il nostro desiderio di giustizia
La vostra gola vi rende ingordi di benessere
La nostra gola ci rende bramosi di sapere
La vostra avarizia vi tiene prigionieri del denaro
La nostra avarizia ci fa trattenere i ricordi dei giorni felici
È così che quando le forze nascoste tutelari si sono riversate nei miei scritti, dopo che si erano manifestate abbondantemente in altre situazioni, ho imparato a non sottovalutare i messaggi che in questo modo sono trasmessi: ho preso quindi la decisione di lasciare loro la libertà di dettare interi capitoli di opere per lo meno inquietanti, molto significative se messe in relazione con altri scritti di autori già noti.
Sono semplici indicazioni che provengono da luoghi in cui il tempo non ha significato, ma danno vita a intuizioni che vivono di un sempre presente davvero rassicurante.

(immagine)

Amore in silenzio
Non è stato semplice apprendere a far silenzio in me, poiché solo scendendo negli abissi profondi della mente, affrontando un simpatico inferno di paure, conflitti e sofferenze, ho intravisto qualche sprazzo di vuoto: un luogo dove gli Dei possono comunicare, fare udire la loro voce.
Così ho immaginato il Nirvana, una libertà totale dalla realtà immanente, ma soprattutto dal giudizio: che qualcuno pensi che io sia “un po’ strana” perché confesso di ascoltare le parole che si formano nella mia mente poco m’importa. So solo che avere la percezione diretta di una verità che può sorgere all’improvviso nei pochi attimi in cui si riesce a mettere a tacere la mente, ascoltando quel sussurro impercettibile, è davvero struggente.
Attraverso i molti esercizi ci si allontana dalle illusioni della mente, quelle che oggi stanno soffocando la magia, quelle che ci portano a perdere il significato arcano della vita e a seppellire il sacro, rinnegando, rinunciando troppo di frequente alla conoscenza vera, alla saggezza primordiale e divina dell’uomo.
È così che si rinuncia all’amore senza condizioni, all’amore che sta alla base della vita, perché è lì che dimora l’impulso alla vita.
Il problema è che solo attraverso questa forma d’amore incondizionato verso la divinità, verso quella parte dell’umanità in cui si riflettono le divinità, superando il pesante muro della materia, cogliamo la possibilità di avvicinarci alle sorgenti della vita che come il Sacro Graal è nascosto per essere protetto nella dimensione terrena, nel momento in cui si disvelano riconnettono l’umanità alla sua vera natura eterna.
Non esistono maestri, non ci sono scuole o chiese che possano fornire strumenti per un tale “salto” in cui abbracciare l’infinito: esiste solo l’Amore e non per nulla anche il Cristo è stato un Dio d’amore.
Libertà dai dogmi, dagli schemi rigidi, dai condizionamenti della mente sono le uniche vie per poter davvero ritornare a vedere il sorriso degli Dei.

Chicca Morone.

Il soffio della Luna

La più recente opera di Chicca Morone, “Il soffio della luna”, è un compendio di racconti che sarebbe più che legittimo, ma assai riduttivo, leggere lasciando che ogni narrazione resti un brano a sé stante, invece di considerare tutti i racconti nel loro insieme.  Sono perle – dice nella prefazione Ilaria Gallinaro –  legate tra loro da un filo sottile e trasparente, sì, ma tanto logico e tanto seducente da dare forma a una collana che sarebbe un peccato assai poco veniale trascurare nella sua compiutezza. E si tratta di una compiutezza che parla dell’Autrice più ancora dei personaggi che fa muovere tra le pagine, e che dice molto sul già lungo cammino letterario che la Morone ha sin qui percorso ed al quale sembra voler restare felicemente fedele.

Ma, innanzi tutto, di cosa parla il libro? Parla d’amore, ma non s’attenda chi legge che le tante vicende qui narrate ricalchino gli schemi romantici cui siamo avvezzi: si alternano infatti nei racconti dolcezza e violenza, complicità e sopraffazione, orrenda crudeltà e sublime sacrificio. L’amore che siamo invitati a esplorare dall’Autrice è quello “originale”: è l’immensa energia, l’inestinguibile forza positiva che ha generato l’Universo e che, in ogni tempo ed in ogni collocazione geografica, attraverso l’eterna attrazione tre il  maschile e il femminile, non solo determina la sopravivenza fisica del genere umano ma con la difficile, a volte drammatica ricerca della fusione perfetta del corpo e dell’anima, esorbita dai confini terreni per volare alla conquista del ricongiungimento con il divino.

In ciascuna delle tre parti di cui il volume è composto (Lo splendore della LunaLa voce della LunaLuna d’amore), solo a volte i protagonisti hanno un nome e una storia alle spalle: in altre sono solo un pronome maschile o femminile, perduto in epoche e in luoghi lontani, dove l’uomo portava l’armatura e la donna il velo. Ma la scelta di questi nomi e di questi sfondi è tutta metaforica e i secoli evocati non sono mai epoche storiche, ma epoche dell’anima, luoghi in cui meglio si manifesta il prevaricare violento dell’uomo e la sua paura, il silenzio della donna e il suo desiderio di essere accolta.

“Il soffio della Luna”, insomma, pur essendo un libro che conferma tutte le scelte espressive dell’Autrice, tra i fondatori con Giuseppe Conte e Stefano Zecchi del movimento letterario mitomodernista, ha in sé qualcosa di diverso da qualunque opera abbia scritto in precedenza. Il grande protagonista rimane il mito, la divinità, l’iniziazione degli umani a comprendere, a penetrare i segreti e i poteri degli dei: anche questa volta la scrittura, il linguaggio usato dall’Autrice, non potrebbe essere più conforme ai temi trattati e la Morone ci conferma, dunque, quanto sia abile nel destreggiarsi con le parole in una ricchezza di vocabolario, oramai in via d’estinzione, che riconcilia il lettore con la sua lingua madre.

Al di là di queste forti analogie, però, resta l’impressione che, con “Il soffio della Luna”, Chicca Morone abbia voluto riassumere in una sola opera tutte le sue trascorse acquisizioni: vuoi sotto il profilo della crescita culturale, vuoi riguardo alla maturazione della propria coscienza individuale di persona sempre protesa verso ricerca del senso più sostanziale dell’Esistere.

Ecco che allora si manifesta forte e chiara, in queste pagine, la complementarietà tra l’erudizione e la consapevolezza. Erudizione, perché  la conoscenza del mito, questo gigantesco sforzo compiuto dall’uomo nella Storia per apprendere, interpretare, “significare” il suo essere ed il suo agire – vuoi come singolarità individuale, vuoi in quanto comunità – richiede fuor di dubbio uno studio di dimensioni immani (Riflettiamo sulla vastità dell’argomento: ogni popolo della Terra si è adoperato nel narrare una propria cosmogonia, offrendo una raccolta così ricca da trasportare nell’Olimpo dei Greci, nel Pantheon dei Romani, alla Corte di Odino, ai totem indo-americani; ai feticci dei neri-africani, alla teocrazia degli Aztechi e quanti altri ancora. Un campo, appunto, immenso che Chicca Morone non trascura in nessuna delle sue versioni).

Consapevolezza, poi: perché se la mitologia va considerata come un “corpus” di insegnamenti espressi, sin dall’origine dalla vita umana, in forma metaforica; se Gustav Jung, meno di un secolo fa, trova nella personalità dell’individuo il prodotto e la sintesi della sua storia ancestrale, come si può supporre che anche la pura e semplice conoscenza del mito non induca ad una cognizione della propria natura che va ben al di là del semplice nozionismo?

Ne “Il soffio della Luna” l’Autrice sottende, dunque, che una volta introitata e assimilata la nostra storia più antica; una volta constatata l’esistenza di un inconscio collettivo che trae origine dall’archetipo, il mettere in uso queste fondamentali acquisizioni rende possibile penetrare meglio in se stessi per meglio scoprirsi, ed anche per meglio curare – perché no – quei mali dell’anima che ci tormentano a tutt’oggi.

In questo senso, il compendio di racconti non potrebbe essere più convincente. E s’intitola forse “Il soffio della Luna” perché, attraverso il suo alito pieno di mistero, spinge con suadente determinazione a riscoprire ciò che in noi dovrebbe essere ben più familiare. Non ultimo, perché porta la firma di un’Artemide dei nostri giorni oramai giunta ad una maturità di sapienza e di “illuminazione” a prova di qualsiasi dubbio.

Anna Antolisei

Febbraio 2008

Leggi IL SOFFIO DELLA LUNA

La poesia come lotta di Tomaso Kemeny

Intervento di Tomaso Kemeny:   “Il Mitomodernismo nella poesia di Ilaria Gallinaro e Chicca Morone”

 Torino, marzo 2012 – Circolo della Stampa.

Oggi la battaglia mortale contro la bellezza ha realizzato l’equivalenza profetica cantata dalle streghe nel Macbeth di William Shakespeare (“Il bello è brutto e il brutto è bello…Fair is foul and foul is fair…”), rendendo gli opposti indistinguibili. Nei casi migliori l’arte indossa il lutto nostalgico della bellezza, dell’eroismo e dei valori, quando non celebra lo squallore delle figure del contemporaneo, oscillanti tra il deforme e l’insensato.
Si tende a dimenticare che la verità del reale si manifesta nelle forme di contraddizione che smembrano le configurazioni abituali della contaminazione col deforme, per rivelarci l’inconciliabile diversità della bellezza, la cui vulnerabilità è marchio dell’esistenza sulla terra.
Mentre la forza distruttrice e ipnotica del pensiero del brutto cancella l’intensa alterità della differenza, la ferita che infligge permette al pensiero di definire lo spazio/tempo specifico delle forme della bellezza, isolate e irraggiungibili.
La bellezza sospende lo spazio/tempo fenomenologico aprendo il frammento alla totalità dell’essere, e la sua apparizione effimera comporta quel tremore interiore che è sintomo dell’incontro con una forma duratura.
Oltre l’immoralità delle apparenze vuote e illusorie che sfuggono verso il gorgo mortale dei desideri sfrenati, l’amore delle bellezza è qualcosa di più alto del possesso e permette di formare un’identità sradicata dalle deformità caotiche della vita quotidiana.
La figlia di Saturno e di Opi, erede della ellenica Dea, Estia, Vesta, le cui Vestali custodivano il fuoco sacro ai piedi del Palatino, a Roma, oggi, qui, a Torino, al Circolo della Stampa, riconosca come Vestali del terzo millennio, Chicca Morone e Ilaria Galinaro e che la battaglia per la vita della bellezza le veda sempre in prima linea. “Fight for beauty!”

Tomaso Kemeny

Video della Conferenza: http://www.ilgiornalaccio.net/video/il-mitomodernismo/